Tutte le volte che inizio a parlare di marketing con i miei studenti, uno dei primi argomenti che affronto è la crisi economica del 2008 e le sue conseguenze a distanza di 10 anni.
Sì, perché senza accorgercene ormai sono passati già 10 anni da quel crack di Lehman Brothers, il colosso dai piedi d’argilla, che scatenò un effetto domino con ripercussioni in tutto il mondo occidentale e non solo.
Il motivo è che per comprendere il mercato dei giorni nostri e come relazionarsi a esso, l’unico modo è capire quali siano state le ragioni che ci hanno condotti a questo punto.
Premetto che non sono un economista, per cui faccio ammenda preventiva su eventuali imprecisioni. Il mio obiettivo non è di spiegare i meccanismi della crisi economica del 2008, bensì le sue ripercussioni sulle abitudini di acquisto dei giorni nostri.
Tutti sanno che c’è stata la crisi economica e che ancora ne paghiamo le conseguenze, ma forse pochi si rendono davvero conto di quali siano stati i profondi cambiamenti che ha portato.
Ma andiamo con ordine.
Le premesse della crisi economica
Cercherò di farla molto breve. Già nel 2007 iniziavano a esserci le basi per il grande botto, con inflazione crescente, costo delle materie prime in rialzo, aumento del costo del grano, calo del potere d’acquisto delle famiglie, ecc…
Questo terreno traballante ha portato alla luce un grosso problema: in USA gli istituti di credito prestavano soldi che non avevano.
In realtà non solo in USA, ma da lì è cominciato il problema. Il loro sistema di prestiti infatti non si basa solo sulle garanzie di copertura come da noi (immobili, pensioni, contratti a tempo indeterminato, ecc.), bensì sul “credit rate”, ovvero la capacità di saldare un debito.
Questa capacità è ovviamente calcolata in parte sulle garanzie di copertura, ma per la maggior parte sul vostro storico come debitori. Per farla breve nuovamente, più soldi avete chiesto in prestito tra carte di credito e affini, pagando sempre le vostre rate correttamente, più soldi vi presteranno.
Per le premesse sopra citate, la popolazione, che in USA è mediamente indebitata fino al collo da sempre (e come potete leggere in questo articolo, non hanno ancora imparato la lezione), ha iniziato ad avere problemi a saldare. I soldi hanno smesso di entrare nelle casse degli istituti di credito, che quindi si sono ritrovati a vacillare, ed ecco che l’effetto domino ha inizio.
La crisi economica e la reazione a catena fino in Italia: 2008/2010
I giganti cadono e i piccoli corrono ai ripari. Questa immagine è molto emblematica di cosa è accaduto dopo: il panico generale. Gli istituti di credito di tutto il mondo, in parte perché connessi tra loro a livello finanziario, in parte terrorizzati di fare la stessa fine di Lehman Brothers, chiudono i rubinetti del credito. Questo porta innanzitutto a uno stallo economico, seguito subito dopo da un caos complessivo.
Le banche di tutto il mondo iniziano a ritrovarsi spesso con debiti non saldati, quindi entrano in possesso di beni pignorati che però non possono convertire in liquidità, in quanto nessuno eroga più prestiti per acquistare. Se non a persone con talmente tante garanzie da non aver bisogno di prestiti.
Nei confronti delle aziende invece, che solitamente hanno un credito “mobile” (fidi, anticipi fatture, castelletti, ecc), le banche richiedono tempestivi rientri delle somme scoperte, anche del 50%, nel giro di pochi mesi. Con una richiesta del genere, molte aziende, soprattutto tra le piccole imprese, non ce la fanno e si trovano a dover chiudere.
E veniamo all’Italia. Il nostro tessuto imprenditoriale è composto quasi integralmente di piccole e medie imprese. Numericamente parlando, in Italia più del 90% delle aziende ha meno di 10 dipendenti.
Il colpo è stato durissimo.Anche perché migliaia di queste aziende in realtà erano in passivo da anni. Parliamo di imprese che senza il sostegno del credito sarebbero già fallite nei 15 anni precedenti. Aziende che si tenevano a galla facendo debiti per pagare altri debiti e che al taglio del credito hanno potuto reagire solo portando i libri in tribunale. Tutte insieme, in un periodo di tempo molto ristretto tra il 2009 e il 2011. Ovviamente lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori.
La seconda ondata: 2011/2014
Decine di migliaia di persone rimaste senza lavoro in una finestra di tempo così ridotta hanno avuto ovviamente una ripercussione devastante sull’economia del Paese.
Meno soldi = meno spese. Sì, è vero, ma soprattutto le spese sono diventate molto più ponderate.
Gli italiani sono un popolo di “formichine”. Piccoli risparmiatori che difficilmente investono e che preferiscono tenere i soldi sotto il materasso. Questo atteggiamento economicamente stagnante ha però permesso a molte persone di incassare il colpo senza cadere in povertà, al contrario di quanto accaduto a molte famiglie americane.
Meno spese e soprattutto più attenzione e più selettività all’acquisto hanno però generato una seconda ondata di chiusure. Tutte quelle aziende sopravvissute in qualche modo al primo colpo inferto dagli istituti di credito si sono trovate davanti a compratori molto più difficili. Più attenti, più esigenti e più diffidenti. E nuovamente con le casse vuote e senza possibilità di investire, non sono riuscite a far fronte al calo delle vendite. Altre migliaia di aziende chiuse, altre decine di migliaia di lavoratori rimasti a casa.
In tutto, tra il 2008 e il 2014 l’Italia ha perso più di 14.000 aziende, già al netto di quei temerari imprenditori che hanno avviato un’attività in quegli anni.
La ripresa e le cicatrici
I dati economici dicono che dal 2015 a oggi il numero di imprese in Italia è tornato poco sotto al livello pre-crisi economica. Ma non serve un occhio attento per notare che la situazione è profondamente cambiata rispetto ad allora.
Una cosa su tutte:la percezione di stabilità.
Fino al 2008 la maggior parte dei lavoratori era convinta che avrebbe potuto lavorare in quell’azienda fino alla pensione, e che una pensione ci sarebbe sicuramente stata.
Ora viviamo invece nell’incertezza. I contratti, le aziende, il mercato… tutto è cambiato e quello che era il concetto di “posto fisso” è diventato il protagonista degli sketch di Checco Zalone.
Fortunatamente i soldi ci sono ancora e il tenore di vita per la maggior parte della popolazione resta più che dignitoso. Ma è l’atteggiamento che è cambiato.
Ora più che mai, per vendere a un consumatore sopravvissuto alla crisi economica – esigente, diffidente, attento a come spende i suoi soldi -, non basta più dirgli che con la stessa dose di detersivo può fare il doppio delle lavatrici rispetto al suo concorrente.
Bisogna conquistarsi la sua fiducia.
Come conquistare quindi la fiducia del cliente?
La domanda ha una risposta tanto semplice quanto complessa da realizzare: facendosi percepire come i migliori per le sue tasche.
Per le SUE tasche.
Vuol dire innanzitutto capire a chi si vuole vendere e che bisogno si sta soddisfando.
Questo è il principio di base del marketing: offrire qualcosa a qualcuno che ne ha bisogno. La base di partenza da cui deve partire qualsiasi pianificazione strategica.
Da qui comincia il percorso di costruzione della fiducia.
Sì, perché in questo momento storico, la differenza tra vendere e non vendere si basa tutta sulla capacità di un marchio di essere riconosciuto, di trasmettere fiducia e di veicolare il suo valore.
Può sembrare un paradosso, ma quando ci sono meno soldi nelle tasche il consumatore non punta a quello che costa meno. Bensì punta a quell’equilibrio tra costo e percezione della capacità di soddisfare il bisogno.
Facciamo un esempio. Se avete a disposizione 20 euro per organizzare un aperitivo con amici a casa vostra, a seconda del bisogno vi comporterete in modo diverso.
- Tanti amici, forse troppi = Comprerete prodotti che con il vostro budget vi garantiscano la maggior quantità di cibo e bevande possibili.
- Pochi ma buoni = Cercherete combinazioni più qualitativamente elevate e magari qualche trovata per stupire i loro palati con ingredienti inusuali e ricercati.
- Gli amici dalla gola secca = Qualche pacco di patatine formato industriale e il resto tutto in birra.
E via così…
Al variare del bisogno, ovviamente cambia il modo di investire il budget a disposizione. Avere pochi soldi non porta a cercare la soluzione più economica ma quella più ottimale.
Una strategia di marketing che funziona serve proprio a questo. Trovare la chiave per essere percepiti come quell’investimento ottimale per il target.
Per concludere
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